Nella newsletter di novembre potrai trovare alcune sentenze in materia di diritto del lavoro.
Il Focus di questo mese è: Come fare se hai un dipendente che usa un linguaggio scurrile con i clienti?
Cliccando sui singoli link, oltre ai contenuti già presenti nell’articolo, troverai le sentenze integrali da cui sono tratti.
Buona lettura della newsletter!
Corte Cassazione civile ordinanza n. 26440 del 10.10.2024
La sentenza della Corte di Cassazione riguarda il licenziamento disciplinare di un dipendente addetto al banco macelleria di un supermercato per comportamento scorretto nei confronti di un cliente. La Corte d’Appello di Cagliari aveva accolto il reclamo dell’azienda riformando la sentenza di primo grado e respingendo l’impugnativa del licenziamento. La Corte d’Appello ha accertato che si era rivolto in modo sgarbato e scurrile a un cliente anziano, proseguendo il diverbio con toni sempre più accesi, violando così l’art. 215 del c.c.n.l. che sanziona le gravi violazioni degli obblighi di cortesia verso il pubblico. La Corte ha anche considerato i precedenti disciplinari del lavoratore, sebbene non specifici, come indicativi di un reiterato disprezzo delle regole. Il lavoratore ha presentato ricorso per cassazione basato su cinque motivi, tra cui l’omesso esame di fatti decisivi e la violazione di norme di legge. Tuttavia, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, affermando che la valutazione delle prove è compito del giudice di merito e non può essere censurata in sede di legittimità, salvo errori logici o giuridici. La Corte ha ribadito che la giusta causa di licenziamento è una nozione che richiede un’interpretazione basata su fattori esterni e principi giuridici, e che l’accertamento dei fatti è demandato al giudice di merito. Inoltre, ha sottolineato che le critiche mosse dal ricorrente non contenevano una specifica denuncia di incoerenza rispetto agli standard normativi.
Contratto di Agenzia: Discrepanza nelle Attività e Natura Subordinata del Rapporto di Lavoro
Corte di Cassazione ordinanza n. 23343 del 29.08.2024
La Suprema Corte ha confermato la decisione della Corte d’Appello di Genova, che aveva parzialmente accolto la domanda del lavoratore, riconoscendo solo una somma per il TFR e non le differenze retributive richieste. Questo esito è significativo per diversi motivi: Qualificazione del Rapporto: La Corte ha stabilito che il rapporto tra il lavoratore e la società non fosse un contratto di agenzia, ma piuttosto un rapporto di lavoro subordinato. Questo è stato supportato da prove che dimostravano l’assenza di autonomia tipica di un agente, evidenziando invece mansioni riconducibili a quelle di un direttore generale. Simulazione Contrattuale: Il riconoscimento della simulazione del contratto di agenzia è cruciale. La Corte ha sottolineato che, nonostante il nomen iuris, le modalità concrete di svolgimento del lavoro indicavano chiaramente una subordinazione, contraddicendo l’asserzione della società. Domanda Nuova: La Corte ha rigettato la richiesta di riconoscimento della qualifica dirigenziale avanzata in appello, ritenendola una domanda nuova rispetto a quella iniziale. Questo aspetto evidenzia l’importanza della coerenza nelle richieste legali e il rispetto delle procedure. Onere della Prova: È stato affermato che spetta al datore di lavoro dimostrare l’assenza di subordinazione quando vi sono elementi che la presuppongono. In questo caso, la presenza continuativa e le modalità lavorative hanno creato una presunzione a favore della subordinazione.
Indennità per il patto di non concorrenza pagata durante il rapporto
Corte di Cassazione ordinanza n. 23331 del 9.08.2024
Questa ordinanza della Corte Suprema di Cassazione riguarda una controversia sul pagamento dell’indennità per patto di non concorrenza tra un ex agente commerciale e una società. La Corte rigetta il ricorso presentato dall’agente, confermando le sentenze di primo e secondo grado che avevano respinto la richiesta di pagamento separato dell’indennità di non concorrenza post contrattuale. L’agente contestava che l’indennità fosse stata pagata insieme alle provvigioni durante il rapporto lavorativo e non separatamente al termine del contratto, come egli riteneva dovuto ai sensi dell’articolo 1751-bis c.c. Tuttavia, la Corte d’Appello di Trieste e successivamente la Cassazione hanno respinto questa interpretazione, sostenendo che le parti possono derogare alle modalità di pagamento dell’indennità di non concorrenza, e quindi accettare una forma di pagamento anticipato insieme alle provvigioni, purché sia previsto un conguaglio finale. La Corte di Cassazione ha motivato la sua decisione basandosi su un consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo il quale l’indennità per patto di non concorrenza non è vincolata ad una specifica modalità di pagamento. Il riferimento all’articolo 1751-bis c.c. non impone infatti una nullità espressa per il patto se non è rispettata una forma specifica di pagamento. Inoltre, la norma non tutela interessi pubblici generali ma, essendo legata alla contrattazione privata tra le parti, consente deroghe. Pertanto, è legittimo che le parti prevedano la corresponsione di parte dell’indennità insieme alle provvigioni durante il rapporto, salvo il conguaglio finale. La Cassazione ha respinto tutti e tre i motivi del ricorso, confermando la validità delle decisioni di merito. In particolare, ha ribadito che la previsione contrattuale era legittima e conforme alla giurisprudenza, nonostante il ricorrente sostenesse che violasse l’articolo 1751-bis c.c. e l’accordo economico collettivo del settore.
Licenziamento illegittimo per errore sul numero di assenze
Corte di Cassazione ordinanza n. 22455 del 8.08.2024
La sentenza della Corte Suprema di Cassazione, riguarda il licenziamento di un dipendente per superamento del periodo di comporto, ossia il termine massimo di assenza giustificata per malattia. Il dipendente, licenziato il 12 ottobre 2017, aveva richiesto l’annullamento del licenziamento, la reintegrazione nel posto di lavoro e il risarcimento del danno, sostenendo che il licenziamento era illegittimo. Il Tribunale di Civitavecchia aveva inizialmente rigettato tali richieste, ma la Corte d’Appello di Roma, con la sentenza impugnata, aveva accolto il reclamo, dichiarando illegittimo il licenziamento, ordinando la reintegrazione del lavoratore e condannando la società al risarcimento pari a 12 mensilità della retribuzione. La Corte d’Appello ha ritenuto che l’azienda non avesse agito in buona fede, avendo fornito indicazioni fuorvianti nei prospetti presenze allegati alle buste paga. Il datore di lavoro aveva erroneamente indotto il dipendente a credere di non aver ancora superato il periodo di comporto. Sebbene non vi fosse un obbligo di preavviso del superamento del periodo di comporto, secondo la giurisprudenza prevalente, la Corte ha stabilito che, in questo caso specifico, il comportamento del datore di lavoro aveva generato un legittimo affidamento nel dipendente, rendendo necessaria una comunicazione correttiva. La Cassazione ha respinto il ricorso dell’azienda, dichiarandolo inammissibile. Ha inoltre condannato la società al pagamento delle spese processuali, inclusi compensi professionali e ulteriori contributi legati al giudizio. Questo caso sottolinea l’importanza del principio di buona fede nei rapporti di lavoro, in particolare quando il datore di lavoro commette errori che incidono sui diritti del lavoratore, come nel caso del periodo di comporto.
Infortunio in itinere per lavoratrice in smart working
Tribunale di Milano sentenza del 16.09.2024
La sentenza esaminata si concentra su un infortunio in itinere subito dalla lavoratrice mentre era in smart working. L’evento scatenante si è verificato durante una pausa concessa per motivi personali, nello specifico per ritirare la figlia da scuola. L’INAIL aveva rigettato la richiesta di indennizzo, sostenendo che l’infortunio non fosse avvenuto in occasione di lavoro, ma a causa di un rischio generico, comune a tutti i cittadini. La ricorrente ha contestato tale decisione, richiamando la giurisprudenza (Cass. n. 18659/2020), che estende la tutela assicurativa anche agli infortuni occorsi durante il percorso casa-lavoro, nonostante la fruizione di un permesso. Il giudice ha riconosciuto la validità delle argomentazioni della ricorrente, confermando che, in base all’art. 2 del Testo Unico n. 1124/1965, gli infortuni in itinere sono indennizzabili anche quando il lavoratore interrompe il percorso per ragioni personali, come il prelievo del figlio a scuola, a meno che non vi siano deviazioni non necessarie. È stato ribadito che i permessi, pur sospendendo temporaneamente l’attività lavorativa, non interrompono il nesso tra lavoro e rischio, in quanto funzionali all’esercizio di diritti costituzionalmente garantiti. L’esito del processo ha quindi riconosciuto il diritto all’indennizzo, in quanto il trauma subito è risultato legato all’attività lavorativa. Dal punto di vista medico-legale, è stato accertato un danno biologico del 8% a seguito di un trauma distorsivo alla caviglia, ritenuto conseguenza diretta dell’infortunio.
Utilizzo di smartphone per la registrazione delle presenze sul lavoro
Tribunale di Trento sentenza del 16.07.2024
La sentenza del Tribunale di Trento del 16 luglio 2024 riguarda una controversia tra un’azienda e una dipendente licenziata per non aver utilizzato un sistema di timbratura elettronico. La dipendente contestava la legittimità del licenziamento, sostenendo che il sistema violava il GDPR. Il Tribunale ha rigettato le eccezioni della dipendente, confermando la legittimità del licenziamento. La sentenza affronta diverse questioni cruciali in materia di diritto del lavoro e protezione dei dati personali. Il giudice ha valutato la legittimità del sistema di timbratura elettronico alla luce del GDPR, esaminando se l’azienda avesse rispettato le normative sulla protezione dei dati. La dipendente sosteneva che il sistema era illegittimo per carenze informative e misure di sicurezza inadeguate. Tuttavia, il Tribunale ha ritenuto che l’azienda avesse adottato misure adeguate, come la pseudonimizzazione dei dati, e che le violazioni contestate non fossero tali da giustificare il rifiuto della dipendente di utilizzare il sistema. Il giudice ha inoltre considerato la proporzionalità delle sanzioni disciplinari irrogate alla dipendente, concludendo che il licenziamento senza preavviso fosse giustificato dalla reiterazione delle infrazioni. La sentenza sottolinea l’importanza del rispetto delle direttive aziendali e delle normative sulla protezione dei dati, evidenziando come la mancata conformità possa portare a sanzioni severe.
Anche gli infermieri non turnisti hanno diritto al pagamento dei tempi tuta
Corte di Cassazione ordinanza n. 20787 del 25.07.2024
L’ordinanza della Corte di Cassazione rappresenta un’importante evoluzione nella giurisprudenza relativa al “tempo tuta” per gli operatori sanitari. La Corte ha riconosciuto che il tempo impiegato per indossare la divisa presso la sede di lavoro, per ragioni di igiene, deve essere considerato come tempo di lavoro effettivo. Questo riconoscimento è significativo perché stabilisce un precedente che potrebbe influenzare future controversie lavorative in ambito sanitario e oltre. La decisione della Corte si basa su principi di tutela della salute e sicurezza sul lavoro, sottolineando l’importanza di garantire condizioni igieniche adeguate per il personale sanitario. La sentenza riconosce che il tempo di vestizione non è solo una questione di preparazione personale, ma un requisito essenziale per la sicurezza e l’efficienza del servizio sanitario. Inoltre, la Corte ha parzialmente accolto le domande di pagamento dei tempi di vestizione, indicando che non tutto il tempo impiegato per indossare la divisa può essere considerato tempo di lavoro. Questo equilibrio tra le esigenze dei lavoratori e quelle dei datori di lavoro riflette un approccio pragmatico e bilanciato della giurisprudenza italiana. La sentenza potrebbe avere implicazioni significative per altre categorie di lavoratori che devono indossare abbigliamento specifico per ragioni di sicurezza o igiene. Potrebbe anche stimolare ulteriori discussioni e possibili modifiche legislative per chiarire ulteriormente i diritti e i doveri relativi al “tempo tuta”. In sintesi, l’ordinanza rappresenta un passo avanti nella protezione dei diritti dei lavoratori, riconoscendo l’importanza del tempo di vestizione come parte integrante del tempo di lavoro, pur mantenendo un equilibrio con le esigenze organizzative dei datori di lavoro.
Lavoratori turnisti: riposo settimanale
Corte Suprema di Cassazione n. 23164 del 27.08.2024
La sentenza della Corte Suprema di Cassazione affronta una questione rilevante riguardante il diritto al riposo compensativo per i lavoratori turnisti nel settore sanitario. La Corte d’Appello di Napoli aveva confermato la decisione del Tribunale di Torre Annunziata, riconoscendo a un’infermiera il diritto alla maggiorazione prevista per i lavoratori turnisti anche per il giorno successivo al turno notturno, considerato come riposo compensativo. La ASL N 3 Sud aveva contestato questa interpretazione, sostenendo che il giorno successivo al turno notturno doveva essere considerato come un secondo giorno di riposo settimanale e non come riposo compensativo. La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso della ASL, affermando che il riposo compensativo è giustificato non solo dal superamento dell’orario settimanale di 36 ore, ma anche dalla necessità di recuperare il maggiore stress psico-fisico derivante da turni prolungati, come quelli notturni di 12 ore. La Corte ha sottolineato che il riposo compensativo è strettamente legato alla penosità del lavoro svolto in turni e che l’indennità prevista dall’art. 44 del c.c.n.l. del Comparto Sanità è volta a compensare questa maggiore gravosità. La sentenza ribadisce che il riposo compensativo deve essere riconosciuto anche quando il lavoratore non supera l’orario settimanale contrattuale, se il riposo è necessario per recuperare le energie dopo un turno particolarmente gravoso. La Corte ha richiamato precedenti giurisprudenziali che supportano questa interpretazione, evidenziando che il riposo compensativo è una misura necessaria per garantire il recupero psico-fisico dei lavoratori turnisti. In sintesi, la sentenza conferma il diritto dei lavoratori turnisti a un riposo compensativo adeguato, riconoscendo l’importanza di tutelare la loro salute e il loro benessere, anche in assenza di un superamento dell’orario settimanale contrattuale. La decisione rappresenta un importante precedente per la tutela dei diritti dei lavoratori nel settore sanitario, rafforzando il principio che il riposo compensativo è essenziale per il recupero delle energie dopo turni particolarmente impegnativi.
Illegittimo l’uso dell’‘uomo-sandwich’ per la propaganda sindacale
Corte di Cassazione n. 24595 del 13.09.2024
La sentenza della Corte di Cassazione riguarda un caso di licenziamento disciplinare inflitto a un dipendente per aver indossato volantini sindacali durante l’orario di lavoro. La Corte di Appello di Roma aveva confermato la legittimità della sanzione, ritenendo che il comportamento del lavoratore non rientrasse nel libero esercizio dell’attività sindacale. Il ricorrente ha contestato questa decisione, sostenendo che la sanzione violava i diritti sindacali garantiti dallo Statuto dei Lavoratori. La Corte di Cassazione ha esaminato tre motivi di ricorso. Il primo motivo riguardava la presunta violazione degli articoli dello Statuto dei Lavoratori relativi alla libertà sindacale. Il secondo motivo contestava la valutazione della proporzionalità della sanzione. Il terzo motivo denunciava la natura discriminatoria del provvedimento disciplinare. La Corte ha rigettato tutti e tre i motivi di ricorso. Ha ribadito che l’attività sindacale deve essere svolta senza pregiudicare il normale svolgimento dell’attività aziendale. Nel caso specifico, il comportamento del lavoratore, definito come “uomo sandwich”, è stato ritenuto fonte di distrazione costante e quindi pregiudizievole per l’attività aziendale. La Corte ha inoltre sottolineato che il comportamento del lavoratore non rientrava nelle modalità consentite dalla contrattazione collettiva. Per quanto riguarda la presunta natura discriminatoria della sanzione, la Corte ha affermato che non vi erano prove sufficienti per dimostrare un trattamento discriminatorio. Ha inoltre chiarito che nei giudizi antidiscriminatori, il lavoratore deve provare il trattamento meno favorevole rispetto a soggetti in condizioni analoghe. In conclusione, la Corte ha confermato la legittimità della sanzione inflitta al lavoratore e ha rigettato il ricorso, condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Whistleblower, va protetto anche se denuncia l’ex collega dopo che ha lasciato il lavoro
CEDU n.15028.16 del 27.08.2024
La sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Corte EDU) nel caso H.H. c. Armenia rappresenta un’importante affermazione della protezione dei whistleblower, estendendo la loro tutela anche dopo la cessazione del rapporto di lavoro. Questo principio è cruciale in un contesto in cui la denuncia di irregolarità, come la corruzione, è fondamentale per garantire la trasparenza e l’integrità nelle istituzioni pubbliche e private. Il caso riguarda H.H., un ex dipendente che ha denunciato atti di corruzione da parte di un collega, V.B. Nonostante le accuse di H.H. non siano state confermate da un’indagine interna, il suo tentativo di segnalare comportamenti illeciti ha portato a una causa per diffamazione contro di lui. La Corte ha esaminato se le autorità nazionali avessero rispettato il diritto di H.H. alla libertà di espressione, sancito dall’articolo 10 della Convenzione Europea dei Diritti Umani. La Corte ha stabilito che la protezione dei whistleblower non deve cessare con la fine del rapporto di lavoro, poiché le informazioni di interesse pubblico possono essere acquisite durante l’impiego e restare rilevanti anche successivamente. Questo approccio è in linea con le normative internazionali e le raccomandazioni europee che mirano a tutelare chi denuncia illeciti. Inoltre, la Corte ha sottolineato l’importanza di un giusto equilibrio tra la libertà di espressione e il diritto alla reputazione, evidenziando che i tribunali nazionali non avevano adeguatamente considerato il contesto della segnalazione di H.H., trattandola come una mera questione di diffamazione piuttosto che come un’azione protetta nell’interesse pubblico. Infine, la decisione della Corte EDU non solo rafforza i diritti dei whistleblower, ma invita anche i sistemi giuridici nazionali a rivedere le loro pratiche per garantire una protezione adeguata a chi si espone per denunciare comportamenti scorretti. Questa sentenza potrebbe avere un impatto significativo sulla legislazione e sulla cultura del lavoro in Armenia e oltre, promuovendo una maggiore responsabilità e trasparenza.
Protezione del patrimonio aziendale: aggressioni esterne e condotte illecite interne
Corte di Cassazione n. 23985 del 6.09.2024
La sentenza della Corte di Cassazione riguarda il licenziamento di un dipendente addetto alla biglietteria, per appropriazione indebita di denaro. La Corte d’Appello di Messina aveva confermato la legittimità del licenziamento basandosi su riprese video ottenute tramite un impianto di videosorveglianza aziendale, installato in conformità a un accordo sindacale del 2015. Il lavoratore aveva contestato la validità delle prove video, sostenendo che l’uso delle riprese violava l’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori e la legge n. 48 del 2008. La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso del lavoratore, affermando che l’impianto di videosorveglianza era stato installato legalmente e che le riprese erano utilizzabili per fini disciplinari. La Corte ha sottolineato che l’accordo sindacale permetteva l’uso delle riprese per la tutela del patrimonio aziendale, anche in assenza di reclami da parte dei clienti. Inoltre, ha ritenuto che le contestazioni del lavoratore sulla genuinità delle immagini fossero generiche e non supportate da prove concrete. La Corte ha anche chiarito che la tutela del patrimonio aziendale include non solo i beni materiali, ma anche l’immagine e la reputazione dell’azienda. Pertanto, le condotte fraudolente dei dipendenti, come l’appropriazione indebita di denaro, giustificano l’uso delle riprese video per fini disciplinari. La Corte ha ribadito che l’installazione dell’impianto di videosorveglianza era stata autorizzata dall’accordo sindacale e che le informazioni raccolte erano utilizzabili ai fini del rapporto di lavoro. In conclusione, la Corte ha confermato la legittimità del licenziamento, ritenendo che le prove video fossero valide e che il comportamento del lavoratore avesse irrimediabilmente compromesso il rapporto fiduciario con l’azienda. Il ricorso è stato rigettato e il lavoratore è stato condannato al pagamento delle spese processuali.
Durante le ferie il lavoratore ha diritto alla retribuzione ordinaria
Corte di Cassazione n. 25840 del 27.09.2024
La sentenza della Corte di Cassazione riguarda una controversia tra un Ente e un suo dipendente relativa alla retribuzione durante il periodo di ferie. La Corte d’Appello di Napoli aveva rigettato l’appello dell’E. confermando la decisione del Tribunale di Benevento che aveva riconosciuto al lavoratore il diritto a ricevere, durante le ferie, una retribuzione comprensiva di indennità perequativa, indennità compensativa e ticket-mensa. La Corte di Cassazione ha esaminato due motivi di ricorso presentati dall’E.. Il primo motivo contestava l’interpretazione della giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) sulla retribuzione durante le ferie, sostenendo che le indennità in questione erano correlate alla presenza fisica del lavoratore in servizio. Il secondo motivo denunciava la mancata valutazione dell’inesistenza di un principio generale di onnicomprensività della retribuzione nel nostro ordinamento. La Corte di Cassazione ha rigettato entrambi i motivi di ricorso, affermando che la nozione di retribuzione durante le ferie deve essere interpretata alla luce della giurisprudenza della CGUE, che prevede il mantenimento della retribuzione ordinaria durante il periodo di ferie. La Corte ha sottolineato che qualsiasi incentivo a rinunciare alle ferie è incompatibile con gli obiettivi del legislatore europeo, che mira a garantire un riposo effettivo ai lavoratori. La Corte ha inoltre ribadito che la retribuzione durante le ferie deve comprendere qualsiasi importo pecuniario correlato all’esecuzione delle mansioni e allo status professionale del lavoratore. Pertanto, le indennità perequativa e compensativa, così come il ticket-mensa, devono essere incluse nella retribuzione feriale. La Corte ha concluso che l’interpretazione delle norme collettive aziendali da parte della Corte d’Appello di Napoli era corretta e in linea con le indicazioni della CGUE. In conclusione, la Corte di Cassazione ha confermato la decisione della Corte d’Appello di Napoli, rigettando il ricorso dell’E. e condannando la società al pagamento delle spese processuali.
TFR al socio lavoratore di cooperativa
Corte di Cassazione n. 26071 del 4.10.2024
La sentenza della Corte di Cassazione riguarda una controversia tra l’azienda e un suo ex dipendente in merito al pagamento del Trattamento di Fine Rapporto (TFR). La Corte d’Appello di Milano aveva condannato la cooperativa e l’azienda a pagare in solido al lavoratore una somma a titolo di TFR, oltre a somme trattenute per contributi previdenziali. L’azienda ha presentato ricorso per cassazione, sostenendo che il rapporto di socio lavoratore era fittizio e che il TFR non fosse dovuto in assenza di una previsione normativa specifica. La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso affermando che la richiesta di pagamento del TFR non comportava una mutatio libelli, poiché il diritto al TFR deriva dal rapporto di lavoro subordinato, indipendentemente dal fatto che il lavoratore fosse anche socio di cooperativa. La Corte ha sottolineato che la legge n. 142/2001 ha chiarito che il rapporto di lavoro del socio di cooperativa è distinto e ulteriore rispetto al rapporto associativo, garantendo così ai soci lavoratori le tutele previste per i lavoratori subordinati. La Corte ha inoltre affermato che non vi è incompatibilità tra la posizione di socio lavoratore e il diritto al TFR, poiché la legge n. 142/2001 prevede l’applicazione delle norme di tutela del lavoro ai soci lavoratori, salvo specifiche esclusioni. La Corte ha ribadito che il TFR è dovuto ai soci lavoratori con contratto di lavoro subordinato, con le stesse modalità previste per gli altri lavoratori subordinati. Infine, la Corte ha dichiarato inammissibile il terzo motivo di ricorso, relativo alla quantificazione del TFR, per difetto di specificità e novità delle questioni sollevate. La Corte ha confermato la decisione della Corte d’Appello di Milano, rigettando il ricorso e condannando la società al pagamento delle spese processuali.
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